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Fine della Globalizzazione??

4.05.2017

È tornato, il politologo Edward Luttwak, nella bella villa settecentesca sulle colline di Valenza che già l’aveva ospitato a settembre, prima di un incontro al Marengo Museum. Stavolta con lui c’erano anche Ted Malloch, docente di economia che il presidente Trump vorrebbe come ambasciatore Usa all’Unione Europea, e l’economista inglese Chris Poll, alfiere della Brexit ma anche delle piccole e medie imprese (è cofondatore del londinese Aim, mercato borsistico alternativo allo Stock Exchange). Ad ascoltarli e porre domande un gruppo di imprenditori locali, invitati dal Centro studi Rattazzi e dal suo presidente Fabrizio Grossi.

Temi economici, ovviamente, guidati da un filo rosso: la globalizzazione è morta e anche l’euro non si sente troppo bene. La fine del mercato globale è stato l’argomento chiave di Poll che ha rilanciato l’importanza dei mercati nazionali in un’epoca in cui le banche, a causa delle nuove regole sulla solidità patrimoniale, finanziano con difficoltà le piccole aziende e le start-up, soprattutto tecnologiche. «La rielezione di Trump nel 2020 dipende dalle stesse cose che si devono fare in Europa: rafforzare la rete delle Pmi». Inoltre il ritorno delle barriere daziarie impone appunto di rimpiazzare l’export con i consumi domestici.

Da qui alla fine dell’euro il passo è breve. Ted Malloch, definito persona «non grata» dai vertici dei principali partiti del Parlamento europeo (Ppe e Pse), parla in proprio, ma le sue idee sono vicine a quelle del presidente americano: «Trump non vuole dividere l’Europa, ma il futuro dell’Unione e dell’euro è nelle mani degli europei, visti gli appuntamenti elettorali di quest’anno. Se ad esempio domenica in Francia dovesse vincere la Le Pen potrebbe essere l’inizio della fine della moneta unica». Ma realisticamente anche lui prevede una vittoria di Macròn. Tutto questo però non cambia l’essenza del problema: senza i due caposaldi del Trattato di Maastricht – il debito pubblico da abbattere al 3% del Pil, vedi l’Italia, e il reddito export da redistribuire agli altri Paesi se supera il 3%, vedi la Germania – le frizioni fra gli Stati continueranno ad aumentare fino ad esplodere.

Euro condannato, dunque? In sala molti sottolineano, ad esempio l’orafo Pasquale Bruni, che la crisi s’è iniziata con la moneta unica (anche se le date per la verità non coincidono), ma quando Poll chiede se preferiscano restare nell’euro quasi tutti alzano la mano. «Ma come – ironizza Luttwak – dite che l’euro porta al disastro e non volete lasciarlo?». Poi teorizza il decentramento amministrativo: «I paesi piccoli vanno meglio di quelli grandi, perché il governo è più vicino al territorio». Prevalgono fra i presenti due paure: quella di lasciare l’Euro e quella dei dazi che blocchino le nostre esportazioni: di quest’ultima si fa portavoce il valenzano Massimo Barbadoro. Ma Molloch sottolinea che Trump «mira più che altro a ostacolare l’importazione degli acciai cinesi». Per i gioielli e per la Vespa avrà un occhio di riguardo: non si danneggia così un vecchio alleato.

( fonte:Piero Bottino per La Stampa)

 

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